Strumenti per una decostruzione dello spazio pubblico urbano.

Per cercare di svelare le relazioni che intrattengono le due facce del concetto di spazio pubblico urbano forse si può ricorrere alla tecnica della decostruzione.
Per dare un senso a questa parola possiamo considerare la strategia del geografo britannico Brian Harley che in un magistrale saggio dichiarò di voler decostruire la mappa – in quanto rappresentazione del mondo – alfine di “rompere il legame presunto tra la realtà e la rappresentazione che ha dominato il pensiero cartografico (…)”; per andare quindi oltre l’apparente ruolo funzionale della mappa, quale immagine “neutra” o “normale” del mondo.
Harley non fu l’unico a smontare il processo di identificazione simbolica tra la mappa e lo stato, la mappa e il potere in generale, ma se partiamo dal principio del dualismo della nozione di spazio pubblico, ovvero che si tratta sia di spazio fisico sia di spazio relazionale, ma in entrambi i casi anche di spazio di rappresentazione, allora possiamo tentare un percorso simile a quello di Harley per la mappa, cercando di evincere i significati (e i valori) nascosti sotto le spoglie degli spazi pubblici delle città di ieri e di oggi. Questo forse ci aiuterà a capire perché di recente lo spazio pubblico si atrofizza così facilmente sotto la pressione delle relazioni mercantili. E forse anche perché le nostre periferie oggi sono così povere di spazi pubblici.

Utopia e eterotopia della spazio pubblico

Idealmente lo spazio pubblico ha principalmente la funzione di permettere alla co-presenza di distribuire i suoi benefici, ossia facilitare l’incontro e la serendipità. Perciò lo spazio pubblico è una forma urbana destinata ad essere gradevole e accogliente, nonostante il fatto che è sempre rappresentazione (egemone o alternativa) della città, ovvero iscrizione nello spazio urbano di visioni del mondo che sono il risultato dei rapporti di potere. Jacques Lévy ha scritto di recente che (…) “Public space is ‘a reasonable utopia’ because there is nothing impossible in its principle, except for the risk that some of the population might refuse co-presence with others. A public space is a fundamental and fragile expression of urban society. It is a place where what is called civility is practised”. (Lo spazio pubblico è “un utopia ragionevole” perché non c’è nulla di impossibile nel suo principio, fatta eccezione per il rischio che una parte della popolazione potrebbe rifiutare la co-presenza con gli altri.

Uno spazio pubblico è una espressione fondamentale e fragile della società urbana. E ‘un luogo dove ciò che si chiama civiltà è praticata

Certo, ma si tratta soltanto di spazi formali, definiti da forme architetturali visibili?

In questo caso la dimensione relazionale dello spazio pubblico, quella che riguarda il potere, verrebbe a coincidere, a confondersi con la rappresentazione del vivere in comune, definita dai codici di comportamento formali (normali) scritti o non scritti delle istituzioni della città.
Questo vale certamente per quelle regioni aperte che sono le piazze, i cinema, i caffè, gli alberghi, le spiagge (ecc.) e le regioni di passaggio, i treni, le stazioni, gli aerei e gli aeroporti.
Lo spazio pubblico relazionale, quello per intenderci della cultura della strada, è invece uno spazio altro, a volte nascosto, non visibile poiché non disegnato, non solido ma frammentato e cangiante a dipendenza dalle relazioni che lo creano.
In alcuni casi è uno spazio altro, molto vicino a ciò che Michel Foucault chiamò eterotopia. Con questo termine egli immaginava uno spazio solido, reale, come ad esempio il cimitero, la capanna in fondo al giardino, la casa chiusa, la missione gesuitica, sorte di contro-spazi all’interno dei quali si elaboravano individualmente o collettivamente altre pratiche sociali e spaziali, rispetto alla normalità dello spazio (pubblico) delle regioni aperte e di passaggio. Ma non c’è ragione che l’eterotopia non si produca anche attraverso la territorialità, ovvero attraverso le relazioni che definiscono l’uso e la condivisione dello spazio. Si può ipotizzare, a questo punto, che la territorialità distrutta da una distopia – come la guerra, il genocidio, la repressione o l’odierna precarizzazione generalizzata del lavoro – tende a produrre spazio altro, eterotopia, sorte d’utopie réalisée per usare ancora le parole di Michel Foucault.
Di principio questo spazio altro non è visibile agli occhi del potere: le reti di partigiani nell’Europa occupata o le comunità di quartiere del basismo al tempo delle dittature latinoamericane sono esempi storici di questi spazi altri, di queste eterotopie dello spazio pubblico. Perché dunque non potrebbe essere così anche negli spazi contemporanei delle nostre città o dell’urbanizzazione informale nei centri e nelle sconfinate periferie delle megacittà latinoamericane?

Relazione e territorialità
La geografia del potere -

Lo spazio pubblico come territorio è un argomento che riguarda la geografia politica o geografia del potere. La parola magica è “relazione”. Per una società o una comunità, la territorialità si costituisce attraverso le relazioni sociali che sono spazialmente rilevanti, che sono in qualche modo suscitate da un obiettivo, ad esempio nella vita quotidiana di ogni persona, come abitare, muoversi, lavorare in luoghi diversi della città. Studiare le relazioni che conducono alla costruzione del territorio, quindi, non significa occuparsi soltanto delle cosiddette relazioni spaziali (come ad esempio la concentrazione o la diffusione di un fenomeno, l’accessibilità o la distanza dal centro, la velocità di spostamento, ecc.), significa piuttosto interessarsi alle poste in gioco degli attori e quindi ai loro obiettivi e alle loro strategie in una determinata situazione. Entrare in competizione per lo spazio significa esercitare il potere in funzione dell’autonomia di cui si dispone. Non si tratta però qui di discutere del potere, in generale, ma del potere insito in ogni relazione destinata all’appropriazione – anche simbolica e temporanea – o al controllo dello spazio. In questo caso pretendere che il potere è soltanto lo Stato (e le istituzioni che emana) vuol dire nascondere un altro tipo di “potere”, forse con la p minuscola, ma che è presente in ogni relazione tra attori (persone o organizzazioni che hanno un obiettivo). A maggior ragione se la relazione ha come posta in gioco l’appropriazione e l’uso dello spazio, come nel caso dell’abitazione, o negli spostamenti quotidiani nelle vie e nelle piazze, nelle stazioni della metropolitana, nei treni (ecc.) affrontiamo tutti i giorni questo tipo di competizione per lo spazio, anche se nella maggior parte dei casi non ce ne accorgiamo e lo accettiamo come la normalità del vivere urbano. Il potere con la p minuscola, affermava Foucault, è ben più pericoloso di quell’altro (quello con la P maiuscola), poiché mentre quest’ultimo si vede (ad esempio nelle architetture degli spazi pubblici) quell’altro si manifesta invisibilmente in ogni relazione umana, rinasce dopo ogni apparente sconfitta o vittoria nel campo dell’agire [43].

Ma da cosa dipende l’esercizio del potere? Partendo da queste proposte, Raffestin suggeriva di leggere il potere come un mix di energia e informazione presente in ogni relazione. In una situazione ideale per esercitare il potere ogni attore doveva di fatto disporre di un certo grado di autonomia, che dipendeva dalla qualità e dalla quantità di energia e di informazione disponibile per attuare le strategie che lo dovevano portare alla realizzazione dei suoi obiettivi [44]. Oggi la società è ben diversa, siamo entrati in un era incerta, che taluni chiamano seconda modernità o modernità liquida: le rappresentazioni del potere sono cambiate, anzi sono in qualche modo scomparse dallo spazio pubblico, ma il principio è valido ancora oggi. Così, ancora oggi, un partito o una comunità di quartiere nel sostenere o avversare decisioni sul come e il dove realizzare un nuovi spazi urbani, dovrà attivare delle strategie, basate sulla consapevolezza delle poste in gioco e quindi su obiettivi da raggiungere. A dipendenza delle risorse di cui dispone – la sua strategia potrà essere articolata su un mix di energia e informazione, ad esempio bilanciando l’uso della forza (con manifestazioni di piazza) con quello della persuasione basata sul negoziato di soluzioni innovative o alternative [45].

Maglie Nodi, Reti – Per esercitare il potere, quindi per procedere alla delimitazione e alla partizione dello spazio, si deve disporre, prima, di una rappresentazione (di una descrizione, un disegno, una mappa dello spazio in oggetto). Dai tempi di Anassimandro di Mileto (vissuto tra il sesto e il quinto secolo a.c.) e dalla sua prima mappa circolare, la carta geografica è diventata il modello del mondo. E’ un modello semplificato – anche nelle sue più recenti apparenze di Google Earth – ma necessario alla mediazione simbolica tra l’uomo (o il gruppo) e il suo territorio [46]. Il territorio non esiste senza una rappresentazione che lo precede e non esiste una territorialità senza la dimensione simbolica di una rappresentazione condivisa. Ora, ogni rappresentazione figurativa, quindi anche la carta geografica, è prodotta partendo dai tre elementi basilari del piano euclideo: punto, linea e superficie. Osserviamo una mappa qualsiasi, ad esempio una delle carte murali che nel passato addobbavano le aule delle scuole elementari. Possiamo così facilmente osservare che gli elementi basilari della rappresentazione del territorio sono riconducibili a questa triade, attraverso la raffigurazione dei nodi, delle reti e delle maglie del potere, in questo caso emanazione dello Stato e dei suoi ordinamenti amministrativi. Punti per rappresentare le città (i nodi dove convergono flussi di persone, energia e informazione), linee per disegnare le vie di comunicazione (le reti di strade, di vie navigabili, di ferrovie…), superfici per rappresentare le diverse partizioni dello spazio, le maglie (come Stati, regioni, province, dipartimenti, comuni). Maglie, nodi e reti si strutturano in modo molto diverso da una società all’altra, ma ci sono differenze anche tra una logica e l’altra. Ad esempio i territori politici non corrispondono necessariamente ai territori dell’economia, detto in altre parole la logica economica provoca nodi, maglie e reti che possono essere diversi, anche molto diversi, dal sistema maglie, nodi, reti della politica [47]. Anche lo spazio pubblico come spazio di appartenenza si costruisce attraverso nodi, maglie e reti, frutto delle relazioni tra gli abitanti e gli utenti del quartiere o della città.

Attori – strategie – mediatori – Per definire la relazione come ancora suggerisce Raffestin, possiamo chiamare in causa tre componenti (o elementi costitutivi) di cui si è già detto molto. Gli attori della relazione sono soggetti portatori di un progetto, ossia hanno delle finalità, degli scopi da raggiungere tramite la relazione. Nella geografia politica di fine Ottocento (quella di Friedrich Ratzel, per intenderci), l’attore privilegiato (l’unico in pratica) era lo Stato. Oggi sappiamo che ogni organizzazione che ha delle finalità in qualche modo “spaziali” può essere rappresentata come attore della relazione che sta alla base di una specifica territorialità. La realizzazione degli obiettivi presuppone delle strategie, ovvero un modo di combinare una serie di elementi da mettere in azione per raggiungere un determinato obiettivo. Possiamo considerare le strategie delle organizzazioni multinazionali per la conquista di un determinato mercato con un determinato prodotto o servizio. Anche per scegliere la casa, una famiglia può optare per diverse strategie: abitare in centro o in periferia implicherà costi e benefici diversi per lavoro, servizi, educazione, trasporti, ecc. Le strategie sono soprattutto il modo di articolare i mediatori, ovvero energia e informazione per raggiungere la finalità (gli obiettivi) della relazione. I mediatori della relazione comprendono quindi tutto ciò che materialmente permette la relazione. Ad esempio i codici della comunicazione, come il linguaggio, e poi le strutture normative, come le leggi e le convenzioni che definiscono e inquadrano le relazioni sociali e i codici di comportamento del vivere urbano. Storicamente, il principale mediatore materiale tra l’uomo e l’ambiente è il lavoro ovvero l’energia e l’informazione necessaria a trasformare la materia, sia essa anche virtuale, sottoforma di conoscenza. Qui potremmo aprire un capitolo enorme [48], poiché soltanto per il lavoro abbiamo una infinità di varianti, di specializzazioni, di tecnologie e di modi di produzione, e poi forme di garanzie o oggi di precarizzazione del lavoro. Per il momento però, accontentiamoci di parlare dei mediatori della relazione come elementi (molto diversi tra loro) che hanno in comune il fatto di presentarsi sottoforma di energia e di informazione.

Informazione funzionale e informazione regolatrice – Come definiamo l’energia? Possiamo dire che si tratta di un “potenziale che consente lo spostamento e /o la modificazione della materia”[49]. Al limite possiamo assimilare la materia all’energia in qualche modo condensata. Attenzione, stiamo facendo una generalizzazione importante: il carbone può liberare energia, mentre l’acciaio è in qualche modo dell’energia condensata che non può più essere utilizzata. Questo tipo di energia, generalmente si chiama “energia grigia”, contenuta in una data materia (quella ad esempio insita negli edifici della città) ma che non può più essere liberata. Così scambiare del carbone o del petrolio contro del grano, del cemento o dell’acciaio vuol dire scambiare dei flussi di energia sotto diverse forme. E cos’è l’informazione? L’informazione è invece la forma o l’ordine insito e decodificabile in ogni materia o energia (ibid.). L’informazione guida l’uso e il consumo dell’energia e permette nel contempo la riproduzione del sistema territoriale. L’informazione si costituisce e si trasmette tramite dei messaggi, dei messaggi simbolici, codificati dai linguaggi, i linguaggi della scienza e della tecnica ma anche tutti gli altri linguaggi. E’ chiaro che nella relazione chi detiene informazioni importanti, che altri non detengono, possiede un vantaggio, maggiore autonomia per raggiungere gli obiettivi. Qui dobbiamo tornare all’esempio del lavoro, in generale, quale mediatore principale della relazione tra l’uomo e l’ambiente terrestre, quindi, al centro della costruzione del territorio di una società o di una collettività. Si è detto prima che il lavoro può essere visto come un mix di una certa quantità di energia e di informazione. Ma possiamo anche definirlo attraverso delle pratiche e delle conoscenze socialmente riconosciute, che per evolvere devono continuamente nutrirsi di energia e di informazione. Le forme del lavoro – quindi delle pratiche e delle conoscenze che lo sorreggono – sono molto diverse in ogni epoca. Le relazioni che inquadrano il lavoro nelle società industriali – come ad esempio convenzioni tra autorità, sindacati e padronato, da cui dipendono i livelli salariali, le indennità di disoccupazione, ecc. – non sono affatto simili a quelle delle società medievali, dove il lavoro era inquadrato nel sistema delle corporazioni. Nemmeno il lavoro nell’epoca della globalizzazione è del tutto confrontabile con i precedenti. Ma in ogni epoca, affinché ci sia lavoro, l’informazione circola nei codici, nelle procedure e nelle transazioni economiche. E ovunque c’è lavoro c’è anche uso (e consumo) di energia, oggi più spesso sottoforma di combustione di idrocarburi fossili, ma forse domani maggiormente con energia da fonti rinnovabili, come l’acqua, il vento, il sole… Per trasformare la materia l’uomo crea costantemente dell’informazione (ad esempio, attraverso i progressi tecnici e scientifici) per poi applicarla alla produzione di apparecchi o di nuove sostanze necessarie a produrre altre materie, apparecchi, macchine.

Il valore dell’informazione varia moltissimo a seconda dei casi. Così ciò che troviamo sui giornali su fatti o avvenimenti ci da una rappresentazione immediata, ad esempio con articoli di approfondimento, come nel caso del crack finanziario globale dell’ottobre del 2008. Tutti i grandi media hanno tentato di approfondire il tema, con inserti speciali, dibattiti tra tecnici, confronti storici con la crisi del 1929, ecc. In realtà per giorni e giorni sono state ripetute più o meno le stesse cose, per finire le notizie di interventi massicci delle banche centrali, per centinaia di miliardi di dollari, cosa a dire il vero mai vista, assolutamente impensabile soltanto qualche mese prima, hanno suscitato quasi indifferenza o rifiuto del grande pubblico. I grandi media, in poche settimane hanno così portato in secondo piano le notizie sui piani di intervento dei governi per salvare i sistemi bancari nazionali. Cosa ci dice questo esempio? Ai non iniziati del sistema finanziario globale (quindi a quasi tutti), l’informazione “pubblica” ha permesso di capire soltanto la superficie delle cose. Ci dice anche che l’informazione, o almeno questo tipo di informazione, si degrada molto rapidamente con il tempo. La questione è invece molto diversa, quando un ricercatore scopre la possibilità di modificare un sistema attraverso un’innovazione, oppure osserva e descrive nuove pratiche o individua fenomeni sino ad ora non considerati, tutte cose che immediatamente creano nuova informazione circolante in una comunità scientifica. E’ possibile che dopo una serie di valutazioni e di test quella nuova informazione sia di primaria importanza per la riproduzione del sistema stesso (come ad esempio per un vaccino, o un organismo in grado di combattere un parassita, uno studio su una catastrofe, ecc.). Per tutti i sistemi, dai sistemi fisici, biologici, ai sistemi finanziari, a quelli politici c’è dunque un’informazione che resta alla superficie dei problemi e un’informazione che permette invece di capire (o di cominciare a capire) questi stessi problemi. Sono due forme di informazione che possiamo chiamare informazione funzionale e informazione regolatrice [50] . Da un lato c’è l’informazione funzionale, ovvero tutto ciò che in qualche modo fa funzionare un sistema territoriale. Essa interessa ad esempio la messa in valore delle risorse e include i sistemi normativi, le conoscenze tecniche e i referenti culturali di una data società. E’ l’informazione “normale”, che permette al sistema di funzionare. D’altro lato c’è un’informazione regolatrice, che concerne invece la perennità del sistema. E’ composta di valori, di codici, di reti sociali, della memoria delle società, ma anche della trasposizione analogica di eventi già avvenuti altrove o di conoscenze acquisite su temi specifici (studi sul futuro del territorio, strumenti di monitoraggio). Si può spiegare meglio con un esempio recente. New Orleans nel 2005 non è stata distrutta dall’uragano Katrina. E’ stata inondata e devastata dall’acqua a causa della rottura delle dighe che la proteggevano e della graduale scomparsa della vegetazione presente sul litorale (con la progressiva cementificazione del fronte marino). Da anni si sapeva che le dighe non avrebbero tenuto una piena centenaria, e si sapeva anche che il litorale non sarebbe stato in grado di resistere ad un forte uragano, poiché non vi era più lo strato di mangrovie e ambienti umidi in grado di assorbirne l’impatto. Non fu fatto nulla o quasi per prevenire ciò che è avvenuto. Il disastro di New Orleans si può allora spiegare per il fatto che non fu considerata l’informazione regolatrice: dei lavori di ricostruzione delle dighe e di parziale ricostituzione delle zone umide, tutto sommato abbastanza semplici per una società evoluta come quella degli Stati Uniti, avrebbero permesso di evitarlo. Ma non fu fatto [51] . Chi produce l’informazione regolatrice? Oggi molti sistemi urbani, regioni, città si sono dotati di sistemi di monitoraggio delle politiche ambientali e territoriali. Questi sistemi producono informazione regolatrice, attraverso indicatori e valutazioni dei cambiamenti recenti dei fenomeni spaziali. Non sempre però sono accolti dai politici, come ci insegna il caso di New Orleans. L’informazione regolatrice, secondo le circostanze, può però rimettere in causa l’ordine prestabilito, sia perché è portatrice di innovazione, sia perché apre nuove prospettive. Lo sviluppo della ricerca sull’effetto serra e il cambiamento climatico (a giudicare dai risultati del Gruppo intergovernativo sull’ambiente) mostra che il mondo corre verso una catastrofe a tempo. Da anni sappiamo che gli Stati devono allestire delle politiche per ridurre le emissioni di CO2, ma, nonostante i discorsi e gli accordi internazionali, tra il 2000 e il 2008 le emissioni di gas e la temperatura media della Terra serra sono aumentate oltre le previsioni dei sofisticati modelli dei climatologi. Si possono trovare altri esempi, ma senza produzione e uso dell’informazione regolatrice la società è condannata a termine all’auto-distruzione.
De-territorializzazione e ri-territorializzazione (il processo “de-ri”)
Ora proprio il ruolo dell’informazione costituisce la principale leva dei cambiamenti sociali e quindi anche del cambiamento delle forme della territorialità. Se osserviamo qualsiasi città o regione contemporanea, possiamo rilevare le tracce recenti di questi cambiamenti. Sono le tracce del processo di territorrializzazione, che di fatto è sempre un processo simultaneo di de-territorrializzazione e di ri-territorializzazione, o processo de-ri. Quando intervengono cambiamenti forti, allora assistiamo a un processo de-ri. Storicamente, forse, il fatto più marcante fu l’industrializzazione, l’esodo rurale e la fine delle “società tradizionali” con la concentrazione nelle città di grandi masse di popolazione. Ma anche il cambiamento dal fordismo al post-fordismo fu un processo de-ri: il declino di un modo di produrre localmente circoscritto (e di una territorialità specifica codificata dal lavoro salariato) e il progressivo passaggio al modo di produrre odierno, quindi a forme di relazioni tra locale e globale, tra luoghi e mondo, nel quale il lavoro, come relazione privilegiata tra la società e l’ambiente locale, non soltanto non è più garantito, ma in molti casi nemmeno più valorizzato [52] .

Il processo de-ri si riflette sulle varie scale. La fine dell’industria nella città (e l’esodo della produzione industriale dai paesi centrali, detti ancora “industrializzati”) ha avuto delle conseguenze notevoli, come la trasformazione di intere aree ex-industriali, prima in terreni dismessi e poi in nuovi quartieri abitativi o di servizi neoterziari. Ogni volta che ci sono dei cambiamenti in una città, dei nuovi progetti che ne scombussolano l’equilibrio e le relazioni spaziali (ad esempio in occasione di grandi eventi come giochi olimpici o grandi esposizioni, o con la riorganizzazione del sistema del trasporto pubblico) possiamo osservare, o subire in modo più o meno intenso, il processo de-ri. Il passaggio dalla città fordista alla metropoli postindustriale non ha implicato soltanto cambiamenti spaziali ma anche profondi cambiamenti sociali, sul piano delle rappresentazioni culturali e dell’identità, delle relazioni economiche e dei rapporti politici interni ed esterni alla città. Ci sono stati (e ve ne saranno ancor più nel futuro) anche cambiamenti ambientali. La città postindustriale – per il momento – produce più rifiuti e la sua mobilità è molto più inquinante di quella della vecchia città fordista [53], che a sua volta consumava molte più risorse della città preindustriale. Più passa il tempo e apparentemente più la società consuma energia, più ne diventa dipendente e più produce quantità di rifiuti e di immissioni inquinanti nell’aria nell’acqua e nel suolo, a dispetto delle dichiarazioni odierne e delle politiche territoriali e ambientali elaborate in nome dello sviluppo sostenibile. Questo mostra però che il cambiamento della territorialità implica anche una crisi ecologica, un processo di rottura-ricostruzione del rapporto tra società e ambiente. Ci si può domandare se il processo de-ri (che ritroviamo a tutte le epoche) potrebbe oggi anche funzionare in un’altra direzione e quindi essere anche la chiave di un cambiamento di territorialità verso un mondo più sostenibile. Meno insostenibile.

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1. Cf. Lofland L.H. (1998) The Public Realm: Exploring the City’s Quintessential Social Territory, Aldine de Gruyter, New York., p. 9.

2. L’immagine che ci facciamo di una città appare spesso soltanto attraverso le sue forme estetiche; la problematica di questo saggio, tuttavia, non si oppone al fatto che il più delle volte, nei centri delle metropoli del sud e del nord, spazio formale e spazio relazionale coincidano: è questo che fa lo charme di una città. Chi scrive, quando si trova in una grande città e ne ha il tempo, non si priva certo del piacere di “scoprirla” vagando qua e la senza meta per gli spazi pubblici formali, sognando di fare incontri inattesi. Per questa strategia di scoperta urbana, che negli anni ’80 i geografi chiamarono dérive urbaine, si veda il saggio di Régine Robin (2009) Mégapolis. Les derniers pas du flâneur, Stock, Paris.

3. Cf. Bauman Z. (tr.it. 2008) Vita liquida, Laterza, Roma – Bari, pp. 80-81.

4. La parola serendipity proviene da un racconto dalla tradizione indiana, i Tre Principi di Serendip, trascritto da Horace Walpole in una lettera del 1754. Per lui la “serendipity” era la caratteristica che si produce quando questi Principi viaggiano « making discoveries […] of things which they were not in quest of ». Per questo oggi la parola significa capacità di affrontare situazioni impreviste, di dominare e mettere a frutto gli incontri fortuiti, situazioni apparentemente negative che possono diventare positive, in funzione delle strategie che adottiamo. Cf. Lévy J. (2004), “Serendipity.”, EspacesTemps.net, Mensuelles, 13.01.2004.

5. Cf. Habermas J. (1962) Strukturwandel der Öffentlichkeit, Untersuchungen zu einer Kategorie der bu_rgerlichen Gesellschaft, H. Luchterhand, Neuwied, trad. fr. L’Espace public: archéologie de la publicité comme dimension constitutive de la société bourgeoise, Payot, Paris 1978. Trad. engl. The structural Transformation of the Public Sphere. An Inquiry into Category of a Bourgeois Society, MIT Press, Cambridge, Massachusetts, 1993.

6. Insieme alle vie di comunicazione e alle reti del trasporto pubblico questo spazio pubblico è quello dei flussi che fanno funzionare ogni giorno il metabolismo della città, senza il quale la vita urbana non sarebbe possibile.

7. Ley D. (1983) Social Geography of the City, Harper & Row, New York.

8. Negli anni ’60 e ’70, per quanto mi ricordi a Lugano, anche noi adolescenti, ci “appropriavamo” degli spazi del quartiere, molto spesso in funzione di giochi di gruppo o anche tra di bande rivali per la conquista di un territorio simbolico (un giardinetto, un terreno di calcio, il fondo nascosto di un giardino privato…).

9. Cf. Bauman Z. (tr.it. 2006) Modernità Liquida, Laterza Bari-Roma, pp. 30-31.

10. Ibid., pp. 87 e ss.

11. Davis M. (1992) “Fortress Los Angeles: the Militarization of Urban Space”, in Sorkin M. (ed) Variation on a Theme Park. The New American City and the End of Public Space, Hill and Wang, New York, pp. 154-180.

12. Augé M. (1992) Non-Lieux, Seuil, Paris ; id. (tr. it. 1993) Nonluoghi, Eleuthera, Milano, pp. 71 e ss.).

13. Daniel Libeskind, Intervista a Andreas Keiser, Swissinfo, 8 ottobre 2008 (www.swissinfo.ch).

14. Saskia Sassen, Intervista a Grégoire Allix, trad., Le Monde, 21 avril 2009.

15. Ad esempio come Millenium Park a Chicago le Ramblas del Mar di Barcellona, il Porto Antico di Genova, o ancora l’Eje Ambiental di Bogotá.

16. Guerra C. et al. (2005) Proprietà e qualità dello spazio urbano in Ticino: trasformazioni recenti, Dipartimento del Territorio, Bellinzona

17. United Nations – Department of Economic and Social Affairs – Population Division (2008), Urban and Rural Areas 2007, New York (www.unpopulation.org).

18. Nel 1975 le città con più di un milione di abitanti erano 192 di cui solo 3 con più di dieci milioni.

19. Soja E. & Kanai M. (2007) “The urbanization of the World”, in: Burdett R. & Sudjic (eds. 2007) The Endless City, Phaidon, London & New York, pp. 54-69.

20. UNO-Habitat (2008) State of the Word’s Cities 2008/09 Harmonious Cities, EarthScan Publishing, London / Sterling VA, pp. 90 e ss.

21. Granotier B. (1980) La planète des bidonvilles, Seuil, Paris

22. Davis M. (tr. it. 2006) Il Pianeta degli slum, Feltrinelli, Milano, p. 27.

23. Saraví G. A. (2004) Segregación urbana y espacio público: los jóvenes en enclaves de pobreza estructural, Revista de la CEPAL, Agosto 2004, 42 p.

24. Negt O., Kluge A. (1972) Zur Organisationanalyse von bürgerlicher und proletarischer Öffentlichkeit, Suhrkamp, Frankfurt.

25. Friedmann J. (2004) Civil Society Revisited: Travels in Latin America and China, For presentation at the Conference on Sustainability and Urban Growth in Developing Countries, Monte Verità, Ascona, Switzerland, November 2004

26. Saraví G. A. (2004) Segregación… op. cit.

27. Mi riprometto di tornare sull’argomento. Pochi utenti di Facebook sono consapevoli che la società che gestisce il sito utilizza i loro dati personali come principale risorsa commerciale e posta in gioco politica, vendendoli al miglior offerente e mettendoli a disposizione del Governo degli Stati Uniti in virtù del Patriot Act (che stabilisce severe limitazioni alla protezione dei dati personali).

28. Lefebvre H. (1974) La production de l’espace, 4e édition, Anthropos, Paris, 2000, pp. 42 e ss.

29. Ibid., p. 42.

30. Per un approccio recente agli spazi di rappresentazione di Lefebvre, si veda anche Schmid C. (2005) Networks, Borders, Differences: Toward a Theory of the Urban, in Diener R., Herzog J., Meili M., de Meuron P. e Schmid C. (2005) Switzerland An Urban Portrait, Book 1: Introduction, Bikäuser Publishers, Basel, pp. 164-173.

31. Lofland L.H. (1998) The Public Realm.. op. cit.

32. Soja E. (1971) The Political Organization of Space, Association of American Geographers, Resource Paper, Washington; Raffestin C. (1980) Pour une géographie du pouvoir, Litec, Paris (tr. it. 1981, “Per una geografia del potere”, Unicopli, Milano); Sack R. (1986) Human Territoriality: Its Theory and History, Cambridge University Press, Cambridge (Mass.).

33. Si veda, tra altri, la raccolta di saggi a cura di Debarbieux B. et Vanier M. (eds. 2002) Ces territorialités qui se dessinent, L’aube/Datar, Paris.

34. Herrera Gómez D., Piazzini S. C. E. (eds. 2006) (Des)territorialidades y (No) lugares. Procesos de configuración y transformación social del espacio, La Carreta Social, Universidad de Antiquia, Medellin.

35. Foucault M. (1976) Histoire de la sexualité 1. La volonté de savoir, Gallimard, Paris.

36. Raffestin C. (1980) Pour une géographie… op. cit.

37. Si veda Dematteis G. et al. (1999) I futuri della città. Tesi a confronto, Franco Angeli, Milano..

38. Wikipedia ricorda che il vocabolo déconstruction fu inventato da Jacques Derrida per tradurre le parole tedesche Destruktion und Abbau nel saggio Essere e Tempo di Martin Heidegger.

39. Harley B. (1992) « Deconstructing the Map », in: Barnes T. & Duncan J. (eds. 2002) Writing Worlds: Discourse, Text and Metaphor in the Representation of Landscape, Rutledge, London and NY, pp. 231-247.

40. Ibid., p. 233.

41. Lévy J. (2008) “The City is Back”, in Lévy J. (ed. 2008) The City, Ashgate, London.

42. Foucault M. (1967) Des espaces autres. Hétérotopies, Conférence au Cercle d’études architecturales, 14 mars 1967, in Architecture, Mouvement, Continuité, n°5, octobre 1984, pp. 46-49.

43. L’analyse en termes de pouvoir ne doit pas postuler comme données initiales la souveraineté de l’Etat, la forme, la loi ou l’unité globale d’une domination: celles-ci n’en sont plutôt que les formes terminales. Par pouvoir, il me semble qu’il faut comprendre d’abord la multiplicités des champs de force qui sont immanents au domaine où il s’exercent, et sont constitutifs de leur organisation ; le jeu qui par voie de luttes et d’affrontements incessants les transforme, les renforce, les inverse (…). Foucault (1976) pp. 121-122.

44. Raffestin C. (1980), pp. 46-47.

45. Anche questo processo è descrivibile a diverse scale. Pensiamo, altro esempio a una famiglia che per poter costruire o ampliare o comprare una casa (poste in gioco, obiettivi), deve attuare delle strategie – ad esempio per incrementare il reddito o per ottenere un mutuo ipotecario a condizioni accettabili – che le assicurino nel contempo l’educazione dei figli e il pagamento delle fatture a fine mese.

46. Cf. Torricelli G.P. (2002) La carte (prospective) comme médiation symbolique, in Ces territorialités qui se dessinent, B. Debarbieux et P. Vanier (eds.), op. cit. pp. 145-160.

47. Si veda per approfondimenti ancora Raffestin (1980), Pour une géographie…, op. cit., pp. 129 e ss.

48. Raffestin C. et Bresso M. (1979), Travail Espace Pouvoir, L’Age d’Homme, Lausanne.

49. Raffestin C. (1980), Pour une géographie…, op. cit., p. 47.

50. Raffestin C. (1984) « Territorializzazione, deterritorrializzazione, riterritorializzazione e informazione », in Regione e regionalizzazione, a cura di A. Turco, Franco Angeli, Milano, pp. 69-82.

51. Cf. Mancebo F. (2006) « Katrina et la Nouvelle Orléans: entre risques ‘naturels’ et aménagement par l’absurde », Cybergeo: Revue européenne de géographie, n. 353, 12 octobre 2006, 14 p.

52. Per approfondimenti, si veda ancora Raffestin (1984) e Soja E. W. (2000) Potmetropolis. Critical Studies of Cities and Regions, Blackwell Publishers, Malden (Mass)., pp. 151-152 e 211-212.

53. Newman P. & Kenworthy J. (1999) Sustainability and Cities, Overcome Automobile Dependence, Island Press, Washington.

Si ringrazia:
AUTHOR: Gian Paolo Torricelli
FIRST PUBLISH: Milano : Academia Universa Press, 2009
AUTHOR: Gian Paolo Torricelli
FIRST PUBLISH: Milano : Academia Universa Press, 2009

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