L’ amore per animali e vegetali sembra scritto nei geni

E’ ancora una parola senza definizione ufficiale: “biofilia” non compare nemmeno nell’ ultima edizione dello Zingarelli. Ma il suo status incerto potrebbe cambiare da un momento all’altro visto l’uso sempre più corrente che ne fanno biologi e conservazionisti. Il termine “biofilia“, infatti, serve a descrivere con esattezza quell’attrazione più o meno spiccata degli individui della nostra specie per le altre forme di vita, animale o vegetale che sia. Insomma, spiegherebbe il desiderio di circondarsi di cani, gatti e altri animali domestici, o di trasformare la casa in un giardino. E stato il grande biologo americano Edward O. Wilson, autore tra l’altro di Biodiversità, a coniare il termine “biofilia” nel 1984. In un libro dal titolo omonimo, Wilson sosteneva che la tendenza umana a focalizzare l’interesse sugli organismi viventi e sui processi della vita non è acquisita da ognuno durante la propria vita, ma possiede una base genetica precisa, legata alla storia evolutiva della nostra specie. In altre parole, sarebbe l’espressione di una necessità biologica che scaturisce dal nostro passato di specie vissuta per milioni di anni a diretto contatto con altri organismi viventi. Per quanto trasgressiva a suo tempo, l’ipotesi di Wilson è stata accolta con entusiasmo da studiosi di vari campi e ora, a dieci anni di distanza, il biologo americano e altri 19 ricercatori hanno gettato le fondamenta scientifiche a supporto dell’ idea nel libro The biophilia hypothesis, uscito negli USA. Intendiamoci, nessuno ha ancora trovato uno specifico gene responsabile dell’amore per le cose viventi, nè tantomeno c’è chi lo cerca. Complesso di regole lo stesso Wilson, del resto, spiega chiaramente: “Non si tratta di un singolo istinto, ma di un complesso di regole di apprendimento innate che modellano una serie di risposte emotive: dall’ attrazione all’avversione, dalla tranquillità all’ansietà “. Tanto radicate sarebbero queste regole, secondo il biologo, che si sarebbero tramandate di generazione in generazione fino ai nostri giorni, anche se atrofizzate sotto certi aspetti e adattate ai nuovi habitat in cui viviamo. Di fatto, pare che il nostro cervello abbia stampate indelebilmente almeno parte delle sue capacità di interazione con animali e piante, soprattutto quelle che si sono rivelate necessarie alla sopravvivenza della specie. Prendiamo per esempio la savana, luogo di origine del bipedismo e habitat di scelta dei nostri progenitori: a sostegno della tesi genetica, numerose ricerche in vari paesi hanno già documentato una spiccata predilezione degli individui per gli scenari aperti, con prati e alberi sparsi, che richiamano appunto questo tipo di paesaggio: la stessa architettura verde, insomma, che tentiamo di ricreare nei nostri parchi metropolitani. Una preferenza altrettanto marcata è stata poi registrata anche nei confronti di paesaggi naturali con specchi e corsi d’ acqua, segno evidente, secondo altri studi, che questi habitat devono avere apportato ai nostri antenati grandi benefici così da lasciare il segno nella specie. Perchè mai, infine, la vista del verde avrebbe sui pazienti in ospedale effetti positivi come l’abbassamento della pressione, la riduzione dello stress e un accorciamento dei periodi di degenza? Secondo gli autori del libro, la chiave sarebbe sempre da cercare nella componente genetica della biofilia. Come la biofilia, anche la “biofobia”. che denota un’avversione per la natura, farebbe parte del sistema innato di “regole di apprendimento” umano. “Gli uomini, racconta Wilson, hanno una predisposizione genetica all’avversione per i serpenti, per esempio (così come per altri elementi e aspetti della natura quali i ragni o le estreme altezze)”. Il caso Woody Allen “La gente è oggi in grado di sviluppare paure e magari vere e proprie fobie verso questi animali anche se li ha visti solo qualche volta, magari nemmeno direttamente. Per contro, reazioni simili vengono raramente suscitate da oggetti e fenomeni della nostra cultura moderna, spesso e volentieri ben più pericolosi di serpenti e ragni come le armi da fuoco, le automobili o l’elettricità “. Il biofobico per eccellenza portato ad esempio nel volume edito da Wilson non poteva essere che Woody Allen. Come racconta l’etologo David Orr “il regista americano non si immerge nemmeno in un lago perchè brulica di cose vive e prende straordinarie precauzioni per evitare ogni contatto tra il suo corpo e organismi viventi“. Secondo Orr, questo tipo di opposizione nei confronti della vita organica sta diventando sempre più comune tra coloro che crescono in mezzo a televisori, walkman, autostrade e dense aree metropolitane dove la natura assume solo un ruolo decorativo.

Vigna Simona

Pagina 33
(26 febbraio 1995) – Corriere della Sera

prima e dopo

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